Venduti a un Duce venduto

Maclodio

Il Genio di Alessandro Manzoni, del quale spero sia inutile fare le presentazioni, può aiutare a far comprendere anche ai più riottosi lo stato in cui si trova oggi (o forse sempre) il nostro paese.

Da tempo sappiamo che sono in realtà i grandi artisti e letterati a saper scorgere i più minuti dettagli sia delle vicende umane sia di quelle di intere Nazioni e che certi romanzi e tragedie sono più esplicativi dei più celebrati trattati di storia, di anropologia, sociologia o psicologia.

Nel caso dell’appena battuta dalle agenzie notizia che il ministro del Tesoro Saccomanni ha aperto alla possibilità della vendita delle partecipazioni statali nei colossi industriali dell’Eni, Enel e Finmeccanica (notizia che certo non ci sorprende) ci son immediatamente venuti alla mente i famosi versi che Manzoni scrisse per la sua tragedia dedicata a Francesco Bussone detto il Carmagnola, brillante condottiero italiano del 1500, con i quali descrive si la battaglia di Maclodio, ma soprattutto lo stato in cui versavano le signorie italiane in quegli anni. Una descrizione che può in realtà essere pari pari riproposta per i nostri tempi non meno bui.

Tanta è la paura che anche l’epilogo delle vicende contemporanee sia il medesimo di quelle cinquecentesche. Allora furono le guerre e gli eserciti stranieri a stroncare le meraviglie del Rinascimento italiano, a oscurare la brillantezza delle corti principesche, a far perdere la libertà ai popoli della penisola e ad avviare l’impoverimento economico e culturale che ridurrà l’Italia al rango di paese più povero e arretrato dell’Europa intera.

Le guerre di oggi non si combattono con gli eserciti, ma con strumenti finanziari e ingerenze politiche. Questo non significa però che i loro effetti siano meno disastrosi.

Basta solo guardarsi attorno e vedere come nell’indifferenza generale l’Italia s’impoverisce ogni giorno di più, di come sia ripresa l’emigrazione verso l’estero e, soprattutto, di come tante aziende italiane, anche le più antiche e gloriose, passano sempre in maggior numero in mani straniere.

Un declino economico e culturale inarrestabile, guidato dai nostri stessi ministri, quelli che dovrebbero governare per soddisfare i bisogni dei cittadini, ma che sono evidentemente occupati a fare altro, anche perché spesso nominati direttamente dai centri si potere internazionali, i soli ai quali si sentono di rispondere.

Ecco i versi del gran Lombardo, che vanno molto oltre gli squilli di tromba che tutti ricordano e sui quali molto si dovrebbe meditare.

S’ode a destra uno squillo di tromba;

a sinistra risponde uno squillo:

d’ambo i lati calpesto rimbomba

da cavalli e da fanti il terren.

Quinci spunta per l’aria un vessillo;

quindi un altro s’avanza spiegato:

ecco appare un drappello schierato;

ecco un altro che incontro gli vien.

Già di mezzo sparito è il terreno;

già le spade rispingon le spade;

l’un dell’altro le immerge nel seno;

gronda il sangue; raddoppia il ferir.

Chi son essi? Alle belle contrade

qual ne venne straniero a far guerra?

Qual è quei che ha giurato la terra

dove nacque far salva, o morir?

– D’una terra son tutti: un linguaggio

parlan tutti: fratelli li dice

lo straniero: il comune lignaggio

a ognun d’essi dal volto traspar.

Questa terra fu a tutti nudrice,

questa terra di sangue ora intrisa,

che natura dall’altre ha divisa,

e ricinta con l’alpe e col mar.

– Ahi! Qual d’essi il sacrilego brando

trasse il primo il fratello a ferire?

Oh terror! Del conflitto esecrando

la cagione esecranda qual è?

– Non la sanno: a dar morte, a morire

qui senz’ira ognun d’essi è venuto;

e venduto ad un duce venduto,

con lui pugna, e non chiede il perché.

– Ahi sventura! Ma spose non hanno,

non han madri gli stolti guerrieri?

Perché tutte i lor cari non vanno

dall’ignobile campo a strappar?

E i vegliardi che ai casti pensieri

della tomba già schiudon la mente,

ché non tentan la turba furente

con prudenti parole placar?

– Come assiso talvolta il villano

sulla porta del cheto abituro,

segna il nembo che scende lontano

sopra i campi che arati ei non ha;

così udresti ciascun che sicuro

vede lungi le armate coorti,

raccontar le migliaia de’ morti,

e la pieta dell’arse città.

Là, pendenti dal labbro materno

vedi i figli che imparano intenti

a distinguer con nomi di scherno

quei che andranno ad uccidere un dì;

qui le donne alle veglie lucenti

de’ monili far pompa e de’ cinti,

che alle donne diserte de’ vinti

il marito o l’amante rapì.

– Ahi sventura! sventura! sventura!

Già la terra è coperta d’uccisi;

tutta è sangue la vasta pianura;

cresce il grido, raddoppia il furor.

Ma negli ordini manchi e divisi

mal si regge, già cede una schiera;

già nel volgo che vincer dispera,

della vita rinasce l’amor. Come il grano lanciato dal pieno

ventilabro nell’aria si spande;

tale intorno per l’ampio terreno

si sparpagliano i vinti guerrier.

Ma improvvise terribili bande

ai fuggenti s’affaccian sul calle;

ma si senton più presso alle spalle

anelare il temuto destrier.

Cadon trepidi a pié de’ nemici,

gettan l’arme, si danno prigioni:

il clamor delle turbe vittrici

copre i lai del tapino che mor.

Un corriero è salito in arcioni;

prende un foglio, il ripone, s’avvia,

sferza, sprona, divora la via;

ogni villa si desta al rumor.

Perché tutti sul pesto cammino

dalle case, dai campi accorrete?

Ognun chiede con ansia al vicino,

che gioconda novella recò?

Donde ei venga, infelici, il sapete,

e sperate che gioia favelli?

I fratelli hanno ucciso i fratelli:

questa orrenda novella vi do.

Odo intorno festevoli gridi;

s orna il tempio, e risona del canto;

già s’innalzan dai cori omicidi

grazie ed inni che abbomina il ciel.

Giù dal cerchio dell’alpi frattanto

lo straniero gli sguardi rivolve;

vede i forti che mordon la polve,

e li conta con gioia crudel.

Affrettatevi, empite le schiere,

sospendete i trionfi ed i giochi,

ritornate alle vostre bandiere:

lo straniero discende; egli è qui.

Vincitor! Siete deboli e pochi?

Ma per questo a sfidarvi ei discende;

e voglioso a quei campi v’attende

dove il vostro fratello perì.

Tu che angusta a’ tuoi figli parevi,

tu che in pace nutrirli non sai,

fatal terra, gli estrani ricevi:

tal giudizio comincia per te.

Un nemico che offeso non hai,

a tue mense insultando s’asside;

degli stolti le spoglie divide;

toglie il brando di mano a’ tuoi re.

Stolto anch’esso! Beata fu mai

gente alcuna per sangue ed oltraggio?

Solo al vinto non toccano i guai;

torna in pianto dell’empio il gioir.

Ben talor nel superbo viaggio

non l’abbatte l’eterna vendetta;

ma lo segna; ma veglia ed aspetta;

ma lo coglie all’estremo sospir.

Tutti fatti a sembianza d’un Solo,

figli tutti d’un solo Riscatto,

in qual ora, in qual parte del suolo,

trascorriamo quest’aura vital,

siam fratelli; siam stretti ad un patto:

maledetto colui che l’infrange,

che s’innalza sul fiacco che piange,

che contrista uno spirto immortal!


La vendetta del Re

Ritratto di Riccardo III

Ritratto di Riccardo III

Ecco come uno degli uomini più vilipesi d’Inghilterra e del mondo intero ha aspettato 5 secoli per prendersi la  rivincita su nemici che, non contenti di averlo detronizzato e ucciso, lo hanno descritto come un mostro sanguinario, soprattutto attraverso una delle opere drammaturgiche più affascinanti e rappresentate nei teatri di tutti i Paesi.

Perché era proprio quello di Riccardo III Plantageneto lo scheletro rinvenuto nel parcheggio di Leicester, dopo una ricerca voluta fortemente dalla The Richard III Society, l’associazione che da anni cerca di riabilitare la figura e l’operato del Re Inglese più odiato e passato a rappresentare la stessa espressione del Male grazie soprattutto al genio di quel propagandista della causa dei Tudor che fu William Shakspeare, chiunque si nascondesse dietro questo nome). La sua descrizione di Riccardo, sia dell’aspetto fisico sia di quello morale, è di tale sinistra bellezza che non può non suggestionare il pubblico che assiste alla sua tragedia, per la quale in genere il ruolo del Re viene interpretato dai migliori attori teatrali inglesi. Una miscela letale per il povero Riccardo, diventato il Male assoluto al quale contrapporre il Buon principe Enrico Tudor, nonno della Regina Elisabetta I, regnante al tempo del poeta,    e la sua reale identità fu presto seppellita sotto quella di fantasia, inventata dal Bardo di Avon.

“Ma io, che non sono formato per i sollazzi d’amore,
né tagliato per contemplarmi compiaciuto in uno specchio;
io che una perfida natura ha defraudato d’ogni armonia di tratti
e d’ogni lineamento aggraziato, mandandomi anzitempo, deforme e incompleto,in questo mondo di vivi, solo per metà sbozzato
e talmente claudicante e goffo che i cani mi abbaiano quando gli passo accanto arrancando;”

« plasmato da rozzi stampi” e “deforme, monco”, privo della minima attrattiva per “far lo sdilinquito bellimbusto davanti all’ancheggiar d’una ninfa.

Ma dopo tanti secoli il Re è tornato col suo vero corpo a raccontare la Storia dal proprio punto di vista, rimettendo a posto tutti i dettagli.

  • L’aspetto fisico: Riccardo non era gobbo, non aveva un braccio paralizzato e non zoppicava. Era affetto da  una scoliosi idiopatica che si manifestò intorno ai 10 anni di età e che degenerò nel tempo, provocando l’innalzamento della spalla destra rispetto a quella sinistra. Il suo aspetto generale, desunto dai resti trovati a Leicester, conferma le cronache dei suoi contemporanei. Il Re era di corporatura snella e aveva lineamenti e una figura delicati, quasi femminei. Nonostante la malattia Riccardo guido con successo campagna militari contro gli Scozzesi e contro i rivali Lancasters, essendo evidentemente fisicamente perfettamente abile.
  • La storiografia ha da tempo smentito molte delle affermazioni contenute nella tragedia shakspeariana a carico di Riccardo: in particolare non può essere l’assassino del principe Edmond, figlio di Enrico VI, dal momento che non era nemmeno presente sul luogo dell’avvenimento e nemmeno poteva essere stato autore dell’uccisione dello stesso infelice Re di casa Lancaster. Non è stato lui a far uccidere il fratello Giorgio, duca di Clarence, ma il loro fratello maggiore Edoardo IV. Non uccise sua moglie per sposare sua cugina Anna Neville. Non sposò Anna Neville per interesse, in quanto i due crebbero insieme nel castello del padre di lei e sembravano destinati al matrimonio, destinato a rinsaldare i legami tra le due famiglie, ma la ragione di stato indusse poi il conte di Warwick a dare in sposa la figlia proprio al principe Edmond. Non ci sono prove che abbia fatto uccidere i figli di suo fratello Edoardo e non si può escludere che i principini fossero vivi al tempo della morte di Riccardo.
  • In compenso si sa per certo che non solo la vita di Riccardo fu sempre ispirata a seguire le regole della cavalleria, ma i suoi due anni di regno furono caratterizzati da riforme liberali, donazioni a chiese e università. Non altrettanto si può affermare per il “buon” Enrico Tudor. L'”oscuro gallese”, salito al trono col nome di Enrico VII, operò per tutta la durata del regno per eliminare tutti i possibili pretendenti di quella corona che aveva indossato con così poco diritto (opera continuata dal figlio Enrico VIII, quello famoso per aver ammazzato quasi tutte le sue sei mogli), tanto che non si può escludere che sia stato lui ad ordinare la soppressione dei principini ospiti della Torre di Londra.
Scoliosi

Scoliosi idiopatica Reale

Re Riccardo III fu l’ultima vittima di una feroce guerra civile e familiare durata 30 anni nata dalla gloria, dal lungo regno e dal matrimonio felice di uno dei più illustri Re inglesi, quel Edoardo III che ebbe la fortuna di vedere sopravvivere all’età adulta tanti suoi figli, tutti nobili cavalieri, e tanti nipoti. Probabilmente mai avrà pensato che quello che pareva un dono divino avrebbe finito per distruggere la sua casata.

Fu quando Enrico Bolingbroke, figlio del duca di Lancaster, depose il cugino Riccardo II, che morì senza figli, che tutto iniziò. Gli usurpatori non possono mai sedere sul trono tranquilli, specialmente quando in tanti possono reclamare di aver maggior diritti per occuparlo. Il suo regno fu infatti caratterizzato dalle ribellioni e troppo breve fu quello del figlio Enrico V, che astutamente cercò di dirottare le forze militari in una fortunata guerra sul suolo francese, per cementare il potere della casata.

Col regno dell’imbelle Enrico VI la situazione precipitò e fu una tremenda guerra fratricida, con i singoli capi feudali cambiare spesso alleanze, all’interno di complessi intrighi familiari. Infine la casata degli York ebbe la meglio, ma la pace fu di breve durata e il tradimento fu ancora fatale a Riccardo III, quando sul campo di battaglia di Bosworth, quando Thomas Stanley, Conte di Derby abbandonò il campo e Henry Percy, conte del Northamberland, a capo della riserva, non intervenne nella battaglia.

I traditori non ebbero però il premio sperato, che quasi tutti, facenti parte della discendenza del capostipite Edoardo III, erano troppo pericolosi per il la nuova dinastia reale dei Tudor e finirono vittime dei sicari del nuovo Re.

King Simon, un Re Australiano

King Simon, un Re Australiano

Dopo 500 anni il corpo di Riccardo III è tornato, dalla piccola tomba dove era stato sepolto nudo dalla carità dei frati di un convento, con i segni delle sevizie subite già da morto dalle soldataglie dei Tudor a chiedere giustizia. L’attuale casa reale non sembra però voler dare una particolare solennità alle nuove esequie che saranno riservate all’antico Re, per il quale è prevista la tumulazione nella cattedrale di Leicester, invece che a York, come la Richard III Society avrebbe voluto, seguendo le indicazioni che il Re aveva dato quando era in vita. L’attuale famiglia reale non ha mai voluto dare particolare risalto alle scoperte sulle vicende intricate di questa epoca ormai lontana, quasi tema che possa sorgere oggi, negli anni 2000,  qualche antipatica questione dinastica. Ma può essere il timore dell’invasione di un esercito australiano, venuto a reclamare la corona a nome di Re Simon, a togliere ad un Re i suoi giusti onori funebri? (certo però che un Re Simon sarebbe un bel colpo d’occhio tra tutti quegli Enrichi, Giorgi e Edoardi).


In Croazia non si deve parlare il Serbo

Viva San Marco

Viva San Marco

Questa è solo l’ultima delle notizie un po’ stravaganti che arrivano dalla repubblica adriatica che, da quando si è costituita in Stato autonomo in seguito al dissolvimento della ex Jugoslavia, fa di tutto per creare qualcosa che non ha mai avuto: un popolo, una cultura e una storia.

La stravaganza stavolta sta nel particolare che il Serbo altro non è che la stessa lingua che i croati parlano tutti i giorni e poco può la propaganda di regime dimostrare il contraria, asserendo che il Croato è una lingua autonoma che non ha nulla a che fare col Serbo. L’unica differenza è che mentre i Serbi per scrivere usano i caratteri cirillici (quelli usati anche in Russia, tanto per far capire) i Croati usano l’alfabeto Latino, o forse bisogna dire l’alfabeto Croato perché pure l’uso dell’aggettivo Latino potrebbe infastidire i suscettibili nazionalisti Croati.

Ad essere infatti particolarmente prese di mira dai Croati sono tutti i legami, fortissimi e antichissimi, che le regioni costiere della penisola balcanica hanno con l’Italia, la sua storia e la sua millenaria cultura. I tentativi Croati di costruirsi un’identità mai posseduta arrivano peraltro a effetti pure involontariamente comici, come nel caso della Croatizzazione di personaggi storici quali il famoso viaggiatore Marco Polo o il filosofo Francesco Patrizi.

Secondo la versione ufficiale Croata, Marco Polo sarebbe infatti stato un Croato nato a Korćula, un’isola dell’Adriatico,  probabilmente fondando le loro convinzioni sul fatto che Polo venne catturato dai genovesi proprio nel mare di Curzola, che è il nome italiano con il quale l’isola è stata conosciuta da secoli. I Croati però, in questo modo dimostrano di non aver mai letto quella che è l’opera per la quale Polo è famoso nel mondo, quel resoconto di viaggio scritto in provenzale, la lingua letteraria dell’epoca,  dal suo compagno di cella Rustichello da Pisa e che s’intitola Le livre de Marco Polo citoyen de Venise, dit Million, où l’on conte les merveilles du monde (“Il libro di Marco Polo cittadino di Venezia, detto il Milione, dove si raccontano le meraviglie del mondo”), nel quale il protagonista racconta molto di se e della sua famiglia Veneziana, senza peraltro mai nominare l’isola di Curzola. Del resto neanche una sua nascita sull’isola adriatica potrebbe connotarlo come Croato, essendo Curzola allora territorio della Repubblica di Venezia e feudo della famiglia Zorzi. Ma la nota comica arriva quando gli storici Croati provano a fornire Polo di un cognome Croato, che è…bho…forse Pilic, ma forse anche Pilicic, o Pilcic…insomma non lo sanno nemmeno loro. In compenso rimane fermo il nome Marco, anzi Marko, di chiara origine Croata e per niente legato al santo protettore di Venezia ( il cui leone alato è  dai Croati pure ribattezzato come “Leone post illirico”). Il copione si ripete col nome del filosofo Stefano Patrizi, che viene declinato come Frane Petrić, Franjo Petrić, Petris, Petriš, Petricevic, Petrisevic, a scelta.

Leone post illirico sull'isola di Krk (Veglia), Dalmazia

Leone post illirico sull’isola di Krk (Veglia), Dalmazia

Ma la follia revisionista dei Croati ha saputo in questi anni raggiungere vette ancora più surreali, tanto da attribuire al loro territorio la tomba di re Artù, i viaggi di Ulisse descritti nell’Odissea e mostrare come arte Croata opere del Tintoretto, di Niccolò Fiorentino, di Francesco da Milano (comicamente ribattezzato  Franjo iz Milana) e dell’architetto Giorgio Orsini da Zara…ooppss…Jurai Dalmatinac, naturalmente, e via di questo passo.

I Croati, tribù slava giunta nei Balcani attorno al 600 dopo Cristo , al seguito degli Avari conquistatori e penetrato col tempo nei centri urbani della costa, proprio non sopportano essere considerati i parvenù del Mediterraneo e non esitano alle più spericolate operazioni di falsificazione della Storia pur di elevarsi al rango dei vicini. Una mania che li affratella alla presunta Repubblica di Macedonia, che addirittura a rigettato l’origine slava, pur continuando a parlare una lingua identica al Bulgaro, per nominarsi discendente del popolo sul quale regno Alessandro il Grande. Una mania apparentemente innocua, forse utile a creare un minimo di interesse turistico per alcune zone,  ma che pure potrebbe porre un domani problemi difficili da dirimere e sulla quale una Unione Europea attenta ai suoi compiti istituzionali dovrebbe vigilare.


Italia und Germania

Italia-und-Germania-Johann Friedrich Overbeck

Italia-und-Germania-Johann Friedrich Overbeck

Molte cose sono accadute in questi giorni di problemi tecnici che ci hanno impedito una regolare pubblicazione dei nostri articoli (anche oggi scriviamo senza sapere di poter mettere in rete i nostri sforzi letterari), ma tra le piroette del cavaliere Silvio Berlusconi, che è passato nel giro di poche ore dall’accusare il premier in carica Mario Monti di tutte le colpe dell’aggravamento della crisi ad offrirgli il ruolo di candidato a primo ministro nella lista del PDL, e le dichiarazioni di falsa sicurezza del vincitore delle primarie del centrosinistra Pierluigi Bersani, che oscilla giornalmente dall’offrire rami d’ulivo alla sinistra di Nichi Vendola e dall’assicurare che il suo eventuale governo rispetterà l’impegno preso dal governo Monti con i vertici dell’UE, configurando un’alleanza con il “grande centro” di Casini, Fini e Montezemolo, il vero fatto che ha conquistato la scena della politica (ma oseremmo dire della Storia contemporanea) è la continuazione del conflitto millenario che divide i paesi europei e che non vede ancora fine.

Ai meno informati potrebbe sembrare avventato, quasi una trama da romanzo ucronico, fissare l’inizio del conflitto tra i popoli del centro nord dell’Europa e quelli Mediterranei, ma non c’è in realtà alcun dubbio che nel Settembre dell’anno 9 della nostra epoca, l’imboscata che i Germani di Arminio tesero alle tre legioni di Publio Quintilio Varo, distruggendole completamente, impedì che la civiltà greco-romana si irradiasse nel Centro Europa, fissando per sempre sulle sponde del fiume Reno i confini tra due diversi modi: quello Latino-Mediterraneo (e poi cattolico) da una parte e quello Germanico (e poi Evangelico Protestante) dall’altro. Un confine poi identificato principalmente con i lunghissimi conflitti tra Francia e paesi tedeschi, finiti solo con la seconda guerra mondiale.

In questi 2000 anni che ci separano dall’evento disastroso avvenuto nelle cupe foreste tedesche, il rapporto dell’Italia e degli italiani con i Tedeschi è stato in genere conflittuale, anche se spesso le vicende storiche hanno portato i due popoli a ritrovarsi alleati. Italia e Germania hanno infatti trovato tardi, rispetto alle altre Nazioni, la dimensione di Stati Nazionali, impegnandosi pertanto fianco a fianco contro le potenze egemoni dell’epoca, fino a raggiungere l’obiettivo insieme, nel 1870, quando il neonato Regno D’Italia aggiunse al suo territorio Roma, la sua capitale naturale, e i Prussiani unificarono i rimanenti stati indipendenti tedeschi nell’Impero Germanico, o secondo Reich.

Wolfgang Goethe - Viaggio in Italia

Wolfgang Goethe – Viaggio in Italia

Molto più proficui e intensi furono però i rapporti culturali tra i due paesi, soprattutto attraverso i viaggi degli intellettuali del Nord sulle sponde del Mediterraneo, in quella che è considerata la culla della civiltà Europea, anche se spesso gli stessi ammiratori delle glorie antiche delle terre che visitavano non lesinavano di tranciare giudizi impietosi sul popolo che le abitava. Non mancavano in realtà eccezioni rimarchevoli di studiosi totalmente persi nell’Amore per la “Terra dei limoni” come fu il pittore Johann Friedrich Overbeck, autore del celebre dipinto “Italia und Germania”, tentativo artistico di un’unione che sembra impossibile tra due mondi che pur attraendosi finiscono infine per respingersi.

Le due ragazze dipinte da Overbeck come personificazioni delle due Nazioni esprimono i sentimenti dell’artista e le sue speranze sui rapporti che le due potrebbero intraprendere, eppure la evidente perplessità sulle avance della sua compagna che la bruna Italia mostra chiaramente, fanno intendere di come lo stesso pittore in cuor suo giudicasse improba la convivenza.

Un giudizio replicato ai giorni nostri anche da un artista di un paese lontanissimo come il Giappone e probabilmente neanche profondamente addentro alla storia europea. Il disegnatore Hidekaz Himaruya ha nel 2006 creato un singolare racconto Manga, “Axis Powers Hetalia” conosciuto semplicemente come “Hetalia”, in cui ripropone sotto una diversa ottica il rapporto di Amore (soprattutto della Germania, affascinato dal modello imperiale dell’antica Roma, verso l’Italia) e di attrazione e repulsione tra i due paesi (o i tre, dal momento che nel Manga Italia è rappresentata da due fratelli che esprimono il Nord e il Sud della penisola).
Il conflitto tra i due mondi è dunque visibile e conoscibile anche da occhi estranei e fatalmente si ripropone soprattutto nei momenti di crisi come quello che stiamo vivendo, perché come dicono gli anglosassoni nei momenti di espansione economica “si è troppo occupati per odiare”.

Hetalia - I Fratelli Italiani

Hetalia – I Fratelli Italiani

In questi nostri giorni non si fa che discutere se la Germania della cancelliera Angela Merkel si intromette nelle questioni interne italiane: una discussione sterile. La Merkel si intromette, come si intromettono la UE e gli USA, eppure non sono pochi ad essere contenti se le vicende nazionali siano regolate da potenze straniere.
Per comprendere il momento è d’aiuto la metafora che ha avanzato, volendo riferirsi in realtà ad altre vicende, il blogger del Fatto Quotidiano Alessandro Marescotti, al di là della veridicità discutibile delle vicende storiche richiamate, ricordando come nell’Italia Medioevale ci fosse sempre un partito disposto a lasciar occupare il Paese dallo Straniero, pur di non far vincere l’avversario interno.
Oggi siamo davanti allo stesso scenario, ma molti non riescono a comprendere chi, in questo caso, veste i panni dei Guelfi Bianchi e chi quelli dei Guelfi Neri e la cosa non è di poco conto se l’elettore vuole sostenere la parte politica che non intende svendere il patrimonio pubblico nazionale, come è stata obbligata la Grecia.

Eppure le informazioni sono alla portata di tutti: basta controllare chi, tra quanti si sono succeduti al governo in questi decenni ha rapporti diretti di subordinazione con istituti finanziari stranieri e chi, sempre in questi decenni, ha occupato cariche negli istituti internazionali che oggi dettano le condizioni al governo italiano. Non è difficile, come non è difficile capire che chiunque si proponga a governare l’Italia partendo dal rispetto della cosiddetta Agenda Monti si qualifichi come un Guelfo Nero (certo che tanti anni passati ad obbdire alle direttive arrivate da Mosca aiutano).

Tutto questo deve valere anche come ammonimento per chiunque pensi che lo studio della Storia, anche quella più antica, non sia importante per comprendere gli avvenimenti contemporanei e per progettare il futuro, se dopo 2000 anni possiamo rammaricarci della decisione di Augusto di non continuare il progetto di colonizzazione della Germania e di portare il confine dello Stato al fiume Elba. Una decisione che ha cambiato il corso degli eventi e, anche se non possiamo immaginare quali risultati avrebbe potuto far sortire, dobbiamo rimpiangere.